Riposa la matita.
Mi scusi professore, ma da ore la mia concentrazione è finita.
I miei occhi son fissi nel vuoto di un bel labirinto,

che non ha via d’uscita.
E faccio assai fatica
a far riassunto dentro una canzone di ogni emozione, di ogni ferita,
riportata nel stringere i denti per giungere intatto
a fine partita.

E guarda la collina,
guarda il cielo rosso che la scalda, più belli non ne hai visti prima.
Ma ora devo distoglier lo sguardo, ora sto pedalando
e non vedo la cima.
E ammira quelle stelle.
D’un tratto, giuro, non è più un problema se non ne ho vista mai una cadente.
Se mi volto, lì vedo seduta una stella caduta
e sei tu, sorridente.

Ma un giorno ti svegli e t’accorgi d’avere vent’anni, ripensi al passato e tutto sommato,
sia giusto o sbagliato, a che cosa è servito
l’avere imparato a memoria equazioni aritmetiche e calcoli assurdi,
per poi ritrovarsi davanti ai tuoi occhi e sentirsi smarrito.
Avrei preferito studiare che non tutto è facile, che anzi alle volte risulta impossibile
rialzarsi in piedi una volta colpito.
E avrei preferito imparare a trovare parole per ogni occasione, studiare che fare
per poter toccare la luna col dito,
sapendo che io somma te darà sempre infinito.

Osserva quelle case,
forse mai le avevi viste prima così vicine, così lontane.
Tutto cambia, tutto è relativo, ma il vero quesito, sai
è che cosa rimane.
Non smetter di suonare.
Ti prego, io non voglio più svegliarmi dai vai e vieni di questo mare.
Le correnti mi cullano forte, ora neanche la morte
mi fa più così male.

Ma un salto nel vuoto l’avevi tentato soltanto nei sogni più astratti che hai fatto.
Allor dimmi perché ancora tremi, non ti vuoi buttare?
Saranno ormai mesi che sto sprofondando nel nulla, tu intanto dall’alto mi guardi.
Ormai sto scomparendo, ma tu non mi vieni a salvare.
Avrei preferito cadere per mille chilometri e poi fracassarmi su scogli appuntiti
che affiorano grigi sul ciglio del mare.
E avrei preferito ascoltare le amare parole che spaccano il cuore
e por così fine una volta per tutte al mio precipitare.
Alzarmi da terra e, da lì, re-iniziare a scalare.

(Grazie a Lorenzo per questo testo)

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